LA COMMISSIONE TRIBUTARIA DI PRIMO GRADO
   Ha emesso la seguente ordinanza sul ricorso n. 5540/1988 presentato
 il 20 aprile 1988  (avverso:  manc/min.  rimb.,  Irpef  -  81-83)  da
 Alberti  Giancarlo, residente a Sestri Levante in: Campodonico, 29 3,
 e Franceschini Luisa, residente a Carro in San Gottardo,  2,  contro,
 l'Intendenza di finanza di Genova.
   1.  -  I ricorrenti, nella loro qualita' di coniugi presentatori di
 denuncia dei redditi congiunta per gli anni 1981, 1982 e 1983, con la
 quale si sono attribuiti in parti uguali la titolarita'  del  reddito
 costituito   dallo   stipendio  del  marito  -  denuncia  rettificata
 dall'ufficio con attribuzione dell'intero reddito al marito  -  hanno
 richiesto   nel   ricorso  che  venisse  loro  rimborsata  una  parte
 dell'IRPEF   corrisposta   (mediante   trattenuta    diretta    sulla
 retribuzione)   per   gli  anni  suddetti;  essi  sostengono  che  la
 retribuzione percepita dal marito per gli anni in questione  dovrebbe
 essere  imputata  ad  entrambi stante il regime di comunione dei beni
 vigente nella famiglia in forza degli artt. 159 e 177,  primo  comma,
 lett.  c), del codice civile (nella versione successiva alla legge 19
 maggio 1975, n. 151).
   Questa Commissione, in  sede  di  prima  discussione  del  ricorso,
 pronunciava   ordinanza   di   rimessione   degli   atti  alla  Corte
 costituzionale, datata  16  giugno  1994,  osservando  che  l'operato
 dell'amministrazione  appariva conforme alla normativa vigente ma che
 questa, viceversa, sembrava in contrasto con gli artt. 3, 29, 31 e 53
 Cost.
   La Corte costituzionale, con sentenza n. 358 del 13-24 luglio 1995,
 dichiarava  inammissibile la predetta questione, ritenendo che "senza
 dubbio... l'attuale trattamento fiscale della  famiglia  penalizza  i
 nuclei  monoreddito  e  le famiglie numerose... che dovrebbero essere
 agevolate ai sensi dell'art. 31 della Costituzione... (in  quanto)...
 sono  tenute  a  corrispondere  un'imposta  sui redditi delle persone
 fisiche notevolmente superiore rispetto ad  altri  nuclei  familiari,
 composti  dallo  stesso numero di componenti e con lo stesso reddito,
 ma percepito da piu' di uno dei  suoi  membri".  Osservato  che  tali
 effetti  distorsivi erano gia' stati segnalati piu' volte dalla Corte
 stessa, dalla dottrina e dal legislatore (legge delega  n.  408/1990,
 rimasta  senza  seguito), la Corte costituzionale faceva presente che
 "i rimedi per il necessario ristabilimento  dell'equita'  fiscale  in
 materia  e  la tutela della famiglia sotto questo aspetto non possono
 essere apprestati  da  questa  Corte  mediante  l'accoglimento  della
 questione   nei   termini   in   cui  e'  proposta,  in  quanto  cio'
 comporterebbe  pluralita'  di  complesse  scelte...   che   competono
 esclusivamente  al  legislatore", ugualmente non sarebbe percorribile
 la via  indicata  dall'ordinanza  di  rimessione,  cioe'  la  pura  e
 semplice   declaratoria  di  incostituzionalita'  delle  disposizioni
 vigenti, perche' cio' "sarebbe fonte di  inammissibili  lacune  nella
 disciplina, riguardo ad una materia che richiede, invece, il costante
 equilibrio  del  sistema".  Tuttavia,  concludeva  la  sentenza della
 Corte, "il  legislatore  non  dovra'  consentire  ulteriormente,  per
 rispetto  ai  principi  costituzionali  indicati  ed  ai  criteri  di
 giustizia tributaria, il protrarsi delle  indicate  sperequazioni  in
 danno delle famiglie monoreddito e numerose".
   Dopo   la   pronuncia   della   sopra   citata  sentenza  le  parti
 ricomparivano davanti  a  questa  Commissione,  ed  in  tale  sede  i
 ricorrenti  insistevano nelle stesse domande inizialmente presentate.
 Nel frattempo il Parlamento, su proposta del  Governo,  approvava  la
 legge  finanziaria  per l'anno 1996 (legge 28 dicembre 1995, n. 550),
 la quale contiene un
 capo II intitolato "Disposizioni in  materia  di  entrata  e  per  la
 famiglia",  composto  dall'art.  3  che  stabilisce,  entro tassativi
 limiti di spesa, incrementi  nell'importo  della  detrazione  per  il
 coniuge  a  carico  (inversamente  proporzionali  all'incremento  del
 reddito) e nell'importo dell'assegno al nucleo familiare  di  cui  al
 d.-l.  13 marzo 1988, n.  69 convertito dalla legge 13 marzo 1988, n.
 153.
   2. - Questa commissione si ritrova nuovamente nella  necessita'  di
 affrontare   il   merito   del  ricorso,  e  non  puo'  non  rilevare
 immediatamente che la situazione normativa nel caso concreto  non  e'
 cambiata a seguito della pronuncia della Corte costituzionale e delle
 innovazioni   legislative  sopra  citate:  infatti  anche  adesso  il
 ricorso, relativo come si e' ricordato agli anni dal  1981  al  1983,
 non potrebbe che essere respinto perche' non sono state modificate le
 disposizioni  (d.P.R.  29  settembre  1973, n. 597, ed in particolare
 l'art. 3 di esso) che  attribuiscono  unicamente  al  percettore  del
 reddito  la titolarita' esclusiva di esso. Nemmeno le (peraltro assai
 limitate)  provvidenze  introdotte  dall'ultima   legge   finanziaria
 potrebbero  alleggerire  il  carico  tributario  del  ricorrente sig.
 Alberti perche' esse, per espresso dettato normativo, non operano che
 per l'avvenire (cfr. art. 3, comma 2).
   Questa  commissione e' consapevole della delicatezza della materia,
 per  la  gravita'   delle   conseguenze   che   potrebbero   derivare
 all'economia  del  Paese  da  una  sovversione  drastica  del sistema
 tributario nazionale.   Peraltro compito del  giudici  e'  quello  di
 garantire  i diritti dei cittadini che appaiano meritevoli di tutela,
 mentre e' compito degli altri  poteri  dello  Stato  l'armonizzazione
 della  tutela  di  tali  diritti  con  gli  interessi  generali della
 collettivita'. Pertanto non e' possibile, anzi sarebbe  contrario  ai
 doveri  del  giudice, ignorare i problemi di diritto in nome di altre
 considerazioni.
   Cio' va detto  in  quanto,  come  deriva  conseguenzialmente  dalle
 premesse, appare tuttora sussistente una situazione di illegittimita'
 costituzionale  non  superata, dalla precedente pronuncia della Corte
 costituzionale, ed anzi ulteriormente aggravatasi.
   3.  -  E'  noto  il  dibattito  dottrinale  sulla  possibilita'  di
 pronuncie  di inammissibilita' della Corte costituzionale qualora una
 dichiarazione di illegittimita' costituzionale  dovesse  invadere  la
 sfera  delle  valutazioni legislative; si e' infatti osservato che in
 caso   affermativo    disposizioni    palesemente    incostituzionali
 rimarrebbero in vigore, con il pericolo di un grave sovvertimento dei
 valori   costituzionali,   di  una  iperprotezione  dell'inerzia  del
 legislatore  e  di  una  abdicazione  della  funzione   della   Corte
 costituzionale  come  giudice  delle leggi.   Si tratta di argomenti,
 peraltro, nuovi nel caso specifico  in  quanto  non  sollevati  nella
 precedente   ordinanza   di  rimessione  alla  Corte,  cosi'  che  la
 questione,  sotto  questo   nuovo   profilo   argomentativo,   appare
 riproponibile,  come  l'unica strada che consentirebbe al ricorrente,
 nel caso concreto in esame, di ricavare una utilita' pratica dal  suo
 ricorso che gli e' attualmente negata da una situazione normativa che
 la  Corte  costituzionale,  nella  ricordata sentenza n. 358/1995, ha
 dichiarato senza mezzi  termini  contraria  alla  Costituzione;  cio'
 dicasi con riferimento al d.P.R. n. 597/1973.
   4.  -  I  valori costituzionali della parita' di trattamento, della
 equita' fiscale e della tutela  della  famiglia  appaiono  ugualmente
 violati  dalla  normativa  introdotta  con la legge finanziaria 1996,
 sotto  il  duplice  profilo  della  irretroattivita'   dei   benefici
 introdotti e della mancata adozione di uno qualsiasi dei suggerimenti
 avanzati  dalla  Corte  costituzionale  fin  dalla sentenza n. 76 del
 1983.
   Con riferimento al primo aspetto va osservato che la  modificazione
 normativa rivolta esclusivamente al futuro lascia completamente prive
 di  tutela  proprio quelle situazioni - quale quella del ricorrente -
 rispetto a cui e' stato adito il giudice, e tale scelta appare, oltre
 a tutto il resto, anche contraria all'art. 24 Cost., perche' vanifica
 la tutela giurisdizionale dei diritti.
   Quanto al secondo  aspetto  si  deve  notare  che  la  Corte  aveva
 avanzato  una serie di indicazioni di ampio respiro, rispetto a cui i
 modesti  benefici  introdotti  appaiono  palesemente  inadeguati   al
 conseguimento  del  risultato  voluto.  La  Corte  aveva  giustamente
 richiamato  anche  la  possibilita'  di  una  introduzione   graduale
 (purche',  deve  intendersi,  operante  almeno  in parte anche per il
 passato), ma  la  elencazione  compiuta  -  ancorche'  non  chiusa  -
 indicava  la  necessita' costituzionale di modificazioni di una certa
 ampiezza,  con   implicita   inadeguatezza,   secondo   i   parametri
 costituzionali di cui la Corte e' custode ed interprete, di soluzioni
 molto piu' limitate, quale e' appunto quella adottata.
   La    Corte,    per    evitare    dichiarazioni    trancianti    di
 incostituzionalita',  potrebbe  seguire  la   strada   indicata   dal
 precedente  di  cui alla sentenza n. 243/1993, ipotizzando un termine
 entro cui il legislatore debba (e non soltanto possa) intervenire, ma
 facendo  nel  contempo  salvo  il  contenuto   della   pronuncia   di
 illegittimita' costituzionale.
   Consegue  la necessita' di una ulteriore rimessione degli atti alla
 Corte costituzionale.